blog
Ferite/Wounded/Blesses – il diario #5 | Washington
Obama non esce mai da solo. E chi vive a Washington sa che se Obama esce di casa (bianca), il traffico si blocca. Davanti e dietro ha un corteo: non meno di venti macchine. Una ha la telecamera sopra il tetto: forma ogni angolo della strada percorsa. Memore del viaggio a Dallas del Presidente Kennedy, di cui si celebrano i 50 dall’omicidio.
Elizabeth Quiroa Cuellar è segretario presidenziale per le donne del Guatemala. E’ una di 38 tra fratelli e sorelle. Uno di loro fu rapito dai guerriglieri. Il padre lo ritrovò giorni dopo, interrato fino al collo. Morto. “Ho cercato di metabolizzare la violenza lavorando contro la violenza”.
Washington è andata. Benissimo.
Ferite/Wounded/Blesses – il diario # 4 | Lazzaris
Alla fine ce l’ha fatta ad essere sul giornale…..
Qui sveglia all’alba.
Nona
“My involvement with ‘Wounded To Death’ came about after meeting Francesca early this year and hearing the story of how the organization was formed. The killing or wounding of women and girls by men; husbands, lovers, fathers and sons, around the world must be addressed and stopped before we can ever truly call ourselves ‘civilized people’. It must be a priority for everyone, we are as strong as the respect we afford every human being; women are not property, we are the channel through which every man, woman and child come into this world”. Nona Hendryx, sul palco di Wounded to Death il prossimo 25 novembre (ONU, New York).
"il personale è politico"
“Il personale è politico”. Lo ripete tante volte Nan Goldin. Lo dice lei che a metà degli anni ’80 si mostrò in un autoscatto con la faccia tumefatta dalle botte che le aveva dato il suo uomo. “Nessuno mi credeva. Nessuno capiva. Una psicologa mi disse: ‘dai, in fondo è un uomo carino’”. Cute, ripete. Cute? S’interroga, ti interroga mentre ti guarda con occhi ancora spaventati.
Nan Goldin ha cominciato a fotografare dopo il suicidio della sorella: voleva tenere tutti nella sua vita per sempre.
“Mi piacerebbe vivere per sempre”.
Il personale è politico. Così Nan sarà a New York, tra le lettrici di Ferite a morte il prossimo 25 novembre all’ONU, per dare voce a donne che non sono “sopravvissute”. Così si definisce lei stessa. Avrebbe voluto raccontare la sua di storia. Sono passati quasi trent’anni e pure sembra esserci rimasta dentro. Vive in camera e cucina, ma a Manhattan. Ringrazia. Dice che è un onore per lei essere stata invitata. Se ti confronti quotidianamente con un mondo pieno di gente e di vite differenti, te la tiri molto meno.
Mi ha regalato un libro: il suo libro di foto in Italia. E’ una copia ‘scartolata’, piena di post-it a segnare le pagine.
Grazie, Nan.
(Grazie, Misma).
Penelope e Ulisse
Così scrive in epigrafe Domenico Quirico, nel suo libro, coltissimo e bellissimo, “Gli ultimi. La Magnifica storia dei vinti”, pubblicato nell’aprile 2013, più o meno in concomitanza con il suo rapimento in Siria, terminato dopo 152 giorni di prigionia. Suona profetica e tenera al tempo stessa quella dedica alla moglie, alla luce di quanto sarebbe successo da lì a poco.
Questo lo spunto. Segue un pensiero. Ma che il mito di Penelope e Ulisse non sia di fatto mai tramontato? Esploratori e avventurieri, inviati e business man, spiriti liberi o egoisti, se vuoi con tenerezza, rispetto e dedizione, ma ciò che chiedono è comunque che rimaniamo in attesa.
ma non sarà il boia a salvare le donne
FINALMENTE in India lo stupro non è più un’onta e le vittime hanno smesso di sentirsi colpevoli. La spessa cappa di omertà attorno a quella che nel nostro Paese è un fenomeno dilagante, è stata spazzata via. La violenza subita da una sola ragazza, il 16 dicembre del 2012, ha avuto l’effetto mirabolante di risvegliare la coscienza di un Paese intero. Ha spinto un miliardo e duecento milioni di cittadini di una nazione zeppa di contraddizioni a guardarsi dentro come mai forse avevano fatto prima.
L’ondata di rabbia generata dallo stupro di gruppo New Delhi è stata benvenuta e catartica. Oggi nei salotti scintillanti della classe media urbana, così come nelle catapecchie di villaggi e baraccopoli, lo stupro ha smesso di essere tabù. Sedute attorno a un tavolo, intere famiglie hanno iniziato a discutere di quanto strisciante fosse la misoginia nel Paese, se le donne avessero paura di denunciare gli stupri che subivano perché non sarebbero state viste come vittime, ma come colpevoli. Fino a ieri questa concezione patriarcale così crudele permeava non solo la struttura familiare, ma anche le istituzioni statali. Tanto che persino le forze dell’ordine non si prendevano più di tanto il disturbo a indagare le denunce di stupro che ricevevano da chi aveva il coraggio di farsi guardare dagli agenti come una sgualdrina per quello che aveva subito.
Il processo di introspezione che è seguito alle imponenti proteste di piazza di dicembre e gennaio ha messo a nudo tutto questo. Lo stupro di una studentessa di ventitré anni ha mostrato all’India le sue debolezze, ma alla fine le ha infuso anche forza. Ha mostrato quanto lo stupro in India fosse giustificato culturalmente, quanto fosse usato come rozzo strumento di controllo sulle donne, esercitato anche dalle caste alte verso quelle più basse. Ma dopo quell’evento l’India ha iniziato a percorrere un processo difficile, ma essenziale, di coraggio e maturità. Ha iniziato a sanare quell’enorme contraddizione tra un Paese in preda a una spumeggiante emancipazione economica, ma ancora attraversato da una cultura profondamente tradizionalista, dove il rispetto dei costumi può diventare pretestuosamente l’àncora a cui aggrapparsi nella disorientante fase di globalizzazione.
Eppure questo processo di introspezione ha avuto anche effetti terrificanti. Sull’onda emotiva delle proteste lo Stato si è arrogato il diritto di togliere la vita a quattro uomini colpevoli di uno stupro. Può uno Stato che fregia di chiamarsi la più grande democrazia al mondo arrogarsi questo diritto? La pena di morte è una condanna estremamente sproporzionata anche di fronte al più orribile dei reati. Non c’è alcun dubbio che gli autori dello stupro dello scorso dicembre, che hanno martoriato il corpo di quella povera ragazza al punto da farla morire per le lesioni interne che le avevano provocato, andavano puniti con estrema durezza. Ma la sentenza emessa dal tribunale di Nuova Delhi non servirà da deterrente verso potenziali stupratori. Non aiuterà a salvare altre donne dall’infamia della violenza carnale. Al contrario, la legge che quest’anno, sull’onda emotiva dell’indignazione sollevata dallo stupro di Delhi, ha esteso la pena di morte anche ai colpevoli di violenze non farà che causare la morte di altre donne. Perché ora chi commetterà questo crimine preferirà uccidere la sua vittima per cancellare la prova vivente di quel gesto.
di SHOMA CHAUDHURY
da Repubblica, 14 settembre 2013
Esperimento con l'India
E’ stata la mia terza volta e ogni volta è sempre un esperimento. Con se stessi. E’ il metro della strada che hai fatto come essere umano rispetto all’ultima volta che ci sei stato. E’ la prova del 9 del tuo essere individuo nei confronti del mondo, qui dove l’individuo è poco rispetto alla massa. E’ la messa in discussione di ogni cosa che pensavi di avere capito. Di ogni punto fermo. Forse nessun altro paese come l’India, tra quelli che ho visto sino ad ora, è così lontano dallo stereotipo che se ne ha prima di metterci piede. Tanto spirituale, ma al di fuori di ogni misticismo. Manganelli docet. Il mio catalogo indiano.
saremo tutti nigeriani
C’è l’Africa nel nostro passato. Centomila anni fa, l’umanità è partita dagli altopiani del continente nero per colonizzare il mondo. E c’è l’Africa nel nostro futuro. Entro questo secolo, il grosso degli uomini e delle donne che popolano il pianeta sarà originario dell’Africa. Un extraterrestre che, nel 2100, facesse una visita mordi-e-fuggi sul nostro pianeta e ci dovesse descrivere brevemente riferirebbe che, per lo più, i nostri nipoti e pronipoti hanno la pelle nera e i capelli crespi. Almeno quattro persone su dieci, di quelle che avrebbe incontrato sarebbero africane. Molto più che cinesi e indiane. E gli europei? Be’, l’extraterrestre dovrebbe aver fortuna per trovarli. Praticamente invisibili, una sparuta minoranza: uno su dieci.
La popolazione della Terra cresce, infatti, un po’ più lentamente che negli ultimi decenni, ma continuerà a crescere, soprattutto in Africa. Almeno questo è l’ultimo messaggio che arriva dai computer dell’Onu. Di cui è bene fidarsi fino a un certo punto. I dati sul boom demografico africano correggono, in parte, la previsione che la stessa Onu aveva fornito un anno fa, quando si pensava che la crescita della popolazione fosse destinata ad arrestarsi nei prossimi decenni. Invece no: andrà avanti
anche dopo il 2050. Succede, con le proiezioni. Quelle demografiche si basano, sostanzialmente, su due fattori. Il primo è l’aspettativa di vita. Salvo catastrofi imprevedibili (una pandemia? Il cambiamento climatico?) è molto probabile che uomini e donne, grazie ai miglioramenti igienici e sanitari, vivranno più a lungo: 89 anni, in media, nei paesi ricchi, 81 in quelli che lo sono un po’ meno. L’altro fattore è molto più volatile. È la fertilità delle donne: quanti bambini ognuna di loro mette al mondo. Il problema, più che fisiologico, è culturale: dipende soprattutto dall’età del primo parto. Scolarizzazione, urbanizzazione, aumento del reddito, di solito, la ritardano. Ma gli esperti dell’Onu avevano, a quanto pare, sopravvalutato questi fattori. La fertilità è più alta del previsto. Il risultato è che, oggi, siamo un po’ più di sette miliardi e, con i nuovi conti, saremo un po’ più di otto nel 2025, appena meno di dieci nel 2050, circa undici nel 2100. Miliardo più, miliardo meno (10,9-11,3 miliardi è il range medio ipotizzato).
Lagos, Kinshasa, Addis Abeba, Dar es Salaam, anche Niamey. Sono queste le metropoli-boom dei prossimi decenni. I paesi destinati a una più rapida crescita di popolazione sono, in effetti, paesi di cui parliamo poco, se non mai: Nigeria, Congo, Etiopia, Tanzania, Niger. L’Africa che ha oggi, sparsi fra savane, foreste e deserti, poco più di un miliardo di abitanti, ne avrà, prevede l’Onu, più del doppio (2,4 miliardi) nel 2050 e quattro volte tanto (4,2 miliardi) a fine secolo. Più di Cina e India messe insieme. La politica del “figlio unico” di Pechino si prepara, infatti, a dispiegare i suoi effetti: dal 2030, la popolazione cinese comincerà a diminuire e potrebbe assestarsi poco sopra il miliardo di persone a fine secolo. Quando, invece, gli indiani saranno, più o meno, un miliardo e mezzo. Oltre il doppio degli europei, destinati a restare, grossomodo, come oggi (640 milioni contro gli attuali 740 milioni). Se cercate partner biondi e con gli occhi azzurri, insomma, dovrete aver pazienza. Più facile, d’altra parte, che ne troviate candidi e con occhi acquosi, vagamente chiari.
Grazie all’allungamento delle aspettative di vita, l’età media di uomini e donne, nei prossimi decenni, è destinata a salire. Anche i paesi in via di sviluppo, più che paesi di bambini e adolescenti, saranno paesi di giovani adulti. Solo l’Europa sarà terra di vecchi, con età medie degli abitanti vicine ai cinquant’anni. Nel 2050, in Italia, ci saranno cinque milioni e mezzo di bambini sotto i dieci anni e oltre quattro milioni e mezzo di over 85. Nel 2100, il sorpasso sarà compiuto: 5,2 milioni di bambini, contro oltre sei milioni di “nonni” (compreso mezzo milione di gagliardi centenari).
Basterebbe questo squilibrio per indicare che il grande fenomeno dei prossimi decenni saranno le possenti correnti di migrazione attraverso il globo. L’Onu prevede che, da qui al 2050, ogni anno trecentomila persone lascino il Bangladesh, e altrettante la Cina e l’India. Dal Messico partiranno in oltre duecentomila e dal Pakistan centosettantamila l’anno. Dove andranno? Gli Stati Uniti devono prepararsi ad assorbire un milione di nuovi immigrati l’anno, circa duecentomila ognuno per Canada e Gran Bretagna. In Italia se ne aspettano oltre centotrentamila l’anno, fino al 2050. In questa fiumana, l’Africa ha un posto di primo piano. Fino a oltre metà secolo, mezzo milione di persone abbandonerà, ogni anno, il continente, per più di metà dai paesi al di sotto del Sahara. La pressione a emigrare dovrebbe attenuarsi negli ultimi anni del XXI secolo, fino ad azzerarsi all’inizio del XXII. L’Onu non ne spiega il motivo, ed è un peccato, perché non si capisce. Altri dati, dello stesso rapporto, infatti, indicano una pressione demografica sempre meno sostenibile: in Nigeria, in viaggio verso il miliardo di abitanti, la densità di popolazione, oggi di duecento persone circa per chilometro quadrato, a livello del-l’Italia, dovrebbe passare a un incredibile 989 persone per chilometro quadrato. Pare inverosimile che questa pressione non si riversi all’esterno.
Non è la sola ragione per cui le previsioni Onu in materia di migrazioni appaiono ottimistiche. Il rapporto si limita a considerare i numeri della demografia. Incrociateli con quelli del riscaldamento globale e il risultato è una miscela esplosiva. A fine secolo — secondo gli ultimi dati — la temperatura potrebbe essere salita di quattro o cinque gradi. Ma questa è una media mondiale. Ai Tropici sarà di più. Sei o sette miliardi di persone vivrebbero in paesi largamente desertificati, con un’agricoltura distrutta: migrazione, a questo punto, è un eufemismo. La parola giusta, probabilmente, è esodo. Milioni di persone in marcia, senza più niente alle spalle: su scala globale. L’umanità non ha probabilmente mai dovuto affrontare una prova più difficile.
Il brutto è che, anche a voler essere ottimisti per forza, non si arriva molto lontano. Immaginiamo, infatti, che l’effetto serra venga, invece, sconfitto e la diffusione di un generale benessere spenga l’ansia di migrare. Un mondo abitato
da serene classi medie. Cosa pensate che mangeranno? È bastato che i cinesi benestanti cominciassero
a manifestare interesse per bistecche e latte per far saltare gli equilibri alimentari mondiali. Non ci sono abbastanza vacche e abbastanza spazio per mettercele. Peraltro, non ci sono neanche abbastanza cereali per dare una birra a ogni cinese. Prima o poi, bisognerà pure far di conto sulle risorse disponibili. Non sarà un secolo facile.
di Maurizio Ricci
da La Repubblica – 21 luglio 2013