blog
una famiglia di signori nessuno
Anselmo Parisini morì in guerra. Era il 1916. D’agosto. Era un ariete. Faceva il bracciante, ma se lo guardi in foto, con gli occhi di oggi, sembra quasi vestito da gran signore. Elegante, comunque in quelle sue gambe incrociate.
Di lì a poco suo fratello Amedeo avrebbe avuto un figlio maschio. Che chiamò Anselmo. Era il 16 gennaio del 1929. Anselmo Parisini, anche lui. La mamma, ovvero la nonna Pina, aveva avuto un fratello perso in guerra. Medardo.
Di Medardo un tempo si sapeva che era stato seppellito al Cimitero del Cavlario. Non s’è mai capito dove. “Poi furono messi tutti a Redipuglia”. Sarà.
Di Anselmo non si sa neanche dove fosse quell’ospedale da campo. C’è però una targa, pare, al cimitero di Calderara.
“Ansia, ma non si potrebbe sapere qualcosa in più della famiglia?”
“Ma cosa vuoi sapere? Eran tutti braccianti. Il babbo del nonno ‘Medeo morì in un fosso. Ubriaco”.
Sarà, ma qualcosa da qualche parte magari potrebbe saltar fuori.
Della Marisa salta fuori un diploma tutto in francese. ‘Ondulation indefrisable’. Dev’essere stata la permanente. Parigi, 1956. Roba di classe. “Ma mica c’era andata a Parigi”. Non avevo dubbi, babbo.
Anche da qui non salta fuori niente di buono, allora.
Ma da qualche parte, qualche buona memoria dovrà pure esserci! O siam solo una famiglia di Signori Nessuno??
"Se mai dovessi assumere un atteggiamento indifferente a proposito di New York, per favore sparatemi"
“Quando rientro in albergo, più tardi, è calata una nebbia che ha quasi inghiottito la mia stanza. Sembra Gotham City, o Blade runner. È eccitante e spettrale, e non mi sono mai sentita più lontana da casa.
Se mai dovessi assumere un atteggiamento indifferente a proposito di New York, per favore sparatemi.” (tracey thorn)
Qui tutto l’articolo
bar & comunismo
“Qualcuno era comunista perché si sentiva solo”.
(Giorgio Gaber)
“Mi sento tristissima”
“Non posso farci niente”
(conversazione al bar)
“Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso: era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana, e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita”.
(Giorgio Gaber)
io sono F E M M I N I S T A
E adesso “Time” vuole buttare la parola femminismo
di ELENA STANCANELLI
OGNI anno la rivista Time indice il concorso per la parola più insopportabile, più abusata, quella che si vorrebbe veder bandita per sempre dall’uso comune. Pubblica una lista di candidate, e poi chiede ai lettori di votare. Quest’anno nella lista c’è la parola “femminismo”. Non abbiamo niente contro il femminismo, hanno spiegato dopo aver scatenato l’inferno, è la parola il problema e il modo in cui è stata usata. In particolare da tutte quelle cantanti, attrici, donne famose a vario titolo che la sfoggiano ormai in ogni intervista, esibendo il proprio impegno come un gioiello. Esprimendosi senza competenza l’hanno distrutta, banalizzata, resa insopportabile.
Si riferiscono prima di tutto a Beyoncé, che ha campionato le parole del Ted talk di Chimamanda Adiche nella sua canzone, “Flawless”, usandole anche come sfondo dei suoi concerti. Quelle dove la scrittrice nigeriana si chiede perché si insegni ancora alle ragazze a considerare il matrimonio un obiettivo, mentre l’obiettivo che ai maschi si insegna di rincorrere è un buon lavoro, che consenta successo e denaro. E poi a tutte le altre — Taylor Swift, Lena Dunham, Lady Gaga, Miley Cyrus… — che si sono espresse non proprio richieste sull’ortodossia o le specificità del proprio femminismo. Persino il discorso di Hermione/Emma Watson alle Nazioni Unite è stato incluso in un uso pop, e quindi irritante, del femminismo, tanto irritante da meritare appunto l’ostracismo. La rete si indigna, i social non ci stanno. Roxanne Gay, autrice di Bad Feminist, twitta «In quale universo è un problema che le celebrity supportino il femminisimo rendendolo popolare?». E ancora: «Non è che per caso quelli del Time stanno con Woman Against Femminism? (il famoso tumblr nel quale alcune donne si sono fatte fotografare con cartelli che spiegavano perché a loro non serviva il femminismo: perché mi piacciono gli uomini, amo i commenti sul mio corpo, cucinare le torte di mele…).
Ma mentre l’indignazione su Internet sale, e le giornaliste si affannano a spiegare perché non va bene bannare il femminismo, sia pure per gioco, i lettori di Time votano. Secondo le ultime proiezioni, la parola femminismo ha conquistato la prima posizione in classifica, staccando le avversarie “bae” (il nuovo “baby”), “kale” (fico) “om nom nom nom” (una specie del nostro “mmmmmm”, per significare che si sta mangiando qualcosa di buonissimo) e “literally”. Il 40% dei lettori di Time pensa che la parola da eliminare nel 2015 sia femminismo. Finora avevano vinto parole oggettivamente orribili, acronimi impronunciabili, neologismi senza alcun significato. Esclamazioni usate come interiezioni negli sms: LOL (Laugh Out Loud, che ridere) OMG (Oh My God) YOLO (you only live once, la vita è una sola). Nel 2014 aveva vinto “twerk”, la danza che consiste nello sbattacchiare il fondoschiena resa celebre da Miley Cyrus, Rihanna e Jennifer Lopez. Parole quindi, e anche bruttine.
Femminismo, scrivono gli indignati contro Time , non è una parola, è un’identità, un’ideologia, un credo politico. Non può essere liquidato come un fastidioso modo di dire, finire nel mucchio dei tic linguistici. È vero che quest’anno ha tirato il vento dell’impegno e alcune donne famose, di solito impegnate soprattutto a tener lisci e appuntiti gli zigomi, hanno sproloquiato a caso su pari opportunità e quote rosa. Può essere una cosa scema, ma male non fa. Bisogna accordarsi su un’unica linea di condotta: quelli famosi, aiutano o danneggiano le cause a cui aderiscono? È difficile capire perché tirarsi una secchiata di ghiaccio in testa, allo scopo di incrementare i fondi per la ricerca sulla Sla, sia giusto, e che Beyoncè balli di fronte a uno schermo su cui stanno scritte parole intelligenti, dovrebbe essere una catastrofe. Se Jovanotti scrive sul suo account twitter che Open di Agassi è un bellissimo libro, ne fa vendere migliaia di copie. Certo, sarebbe meglio che lo stesso risultato lo ottenesse una dotta recensione, ma anche il risultato e basta è qualcosa. Tra tutte le parole brutte che il nostro vocabolario ospita e la contemporaneità inventa, ci siamo scagliati tutti con insopprimibile violenza contro “femminicidio”. Perché lo scontro maschio/femmina è ancora il nodo delle nostre società. Da quella dialettica esplosiva nasce quasi tutta l’arte, la politica, per non parlare delle psico-patologie. È irrisolto, caldo, è la nostra rivoluzione possibile, quella che, nella peggiore delle ipotesi, potremmo ancora mancare. Da qualche giorno è diventato virale (e ha prodotto decine di imitazioni) un video girato in varie città, in cui una ragazza né bella né brutta, in abiti non appariscenti, cammina. E viene sepolta di commenti, fischi, battute, proposte oscene. Chissà se sono quelli gli elettori di Time, i fischiatori da strada che non vogliono essere spernacchiati dalle femministe. O sono invece certe femministe portatrici della vulgata femminista e offese dalla sua banalizzazione, che per eccesso di severità preferiscono far saltare il banco. La politica insegna: gli avversari peggiori ce li hai quasi sempre in casa.
da Repubblica, 15 novembre 2014
tra le righe di un festival
La Repubblica delle Idee a Palermo. Il debutto di ELASTICA! A breve anche su elastica.eu.
una noiosa femminista? no, Shakespeare....
“Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti a una donna”. | W.S.
"Some call it the glass ceiling, I call it cultural femicide" - Virginia docet
“The reason I am a women’s cultural advocate is because of the marked, obvious and ubiquitous belittlement, marginalisation and under-representation of women in culture and particularly the literary scene, despite women being the vast and overwhelming majority of supporters of all arts both within and without the industry. Some call it the glass ceiling, I call it cultural femicide”. A room of our own