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Lettonia e Lituania, Europa, Agosto 2022


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Il prima viaggio intercontinentale a due anni dallo scoppio della pandemia. Mauritius: non solo resort. Un angolo della mia amata India, fuori dall’India, dove chissà mai quando si potrà tornare.
Qui il mio racconto fotografico.


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“…com’è accaduto che, con la nostra tanto decantata intelligenza superiore, siamo diventati una specie talmente poco portata alla sopravvivenza? (…) Se questi istinti ci spingeranno ad aspettare finche sarà troppo tardi, saranno una maledizione. Se fortificheranno la nostra capacità di resistere nonostante i presagi sempre piú funesti, saranno una benedizione. Piú di una volta, speranze folli e ostinate hanno ispirato mosse creative capaci di strappare le persone alla rovina. Tentiamo allora un esperimento creativo: immaginiamo che il peggio sia accaduto. L’estinzione degli umani è un fatto compiuto. Non a causa di una calamità naturale, della collisione con un asteroide o di un’altra catastrofe capace di radere al suolo anche tutto il resto lasciando ciò che rimane in uno stato radicalmente alterato e impoverito. E neppure a causa di qualche cupo ecoscenario in cui ci spegniamo in una lenta agonia, trascinando nel frattempo con noi molte altre specie. Immaginiamo invece un mondo in cui tutti noi, e solo noi, scompariamo all’improvviso. Domani. Forse è inverosimile, ma a titolo esemplificativo non impossibile. (…). Guardatevi intorno, nel mondo d’oggi. La vostra casa, la vostra città. Il terreno circostante, con il manto stradale e il suolo nascosto al disotto. Lasciate tutto com’è, ma togliete gli esseri umani. Cancellateci, e osservate ciò che rimane. Come reagirebbe il resto della natura se all’improvviso si trovasse sollevata dall’incessante pressione che esercitiamo su di essa e sugli altri organismi? Quanto ci vorrebbe prima che il clima ritorni quello che era prima che accendessimo tutti i nostri motori? E potrebbe davvero tornare quello che era?”
da Il mondo senza di noi di Alan Weisman
Qui la gallery fotografica


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Mozambico, la mia Africa

fotocronaca di una vacanza insolita


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Ciao Mario, che hai voluto bene agli uomini


Ciao, Mario.


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uomini e donne

“Ho fatto pace con papà Dürrenmatt”
di CONCETTO VECCHIO
da Repubblica, 12 / 12 / 2015

Zurigo
«Non fu mai facile per mia madre essere la moglie di Friedrich Durrenmatt, non fu facile per niente. Era sempre immerso nei suoi pensieri, come sigillato nel suo mondo. Nelle cose della vita quotidiana poi era maldestro, perdeva la pazienza facilmente. Quando ero ragazza capitava di parlare con mia madre, e poi come un fulmine irrompeva papà, con lo sguardo chino su un testo da correggere, s’intrometteva senza chiedere permesso: «Lotti, ho un dubbio»; allora mia madre subito troncava la conversazione, e insieme cominciavano a esaminare quel foglio. Discutevano accanitamente su ogni parola, su ogni riga, e io d’improvviso non esistevo più».
Ruth Dürrenmatt assomiglia al padre. Ha 64 anni, è musicista. Venticinque anni fa (14 dicembre 1990) se ne andava Friedrich Dürrenmatt, il grande drammaturgo svizzero, l’autore del Giudice e il suo boia (ora ripubblicato da Adelphi) e de La promessa, due romanzi che hanno scardinato il genere giallo. In 32 cinema svizzeri, da qualche settimana, si può vedere il film-documentario Dürrenmatt- Eine Liebesgeschichte,(Dürrenmatt – Una storia d’amore), sul rapporto tra il maestro e la moglie, Lotti Geissler, che fu qualcosa di più complesso di un semplice matrimonio, un sodalizio intellettuale fortissimo. Lo ha realizzato una cineasta di Zurigo, Sabine Gisiger, che per la prima volta ha convinto anche la sorella dello scrittore Verena, 91 anni, e due dei tre figli, Peter, 66, sacerdote protestante, e Ruth, a parlare della loro famiglia. Il film contiene pezzi d’archivio indimenticabili, come l’ultimo discorso pubblico di Durrenmatt, quello dove descrive la Svizzera come una prigione – dove gli svizzeri sono allo stesso tempo secondini e carcerati.
Signora Ruth, com’era Dürrenmatt da padre?
«Lui di sé diceva sempre di essere stato un cattivo genitore, per tutta la vita fu tormentato dai sensi di colpa. Non fu semplice essere sua figlia. Ma adesso lo capisco, e lo amo senza rancore: era uno scrittore di successo, pubblicava un libro all’anno. Insomma non faceva l’impiegato delle poste che alle 5 torna a casa e si mette a giocare con i figli. Ogni suo pensiero era dedicato ossessivamente alla scrittura. Lavorava senza soste. Era capace di riscrivere anche cento volte una pagina».
Colpisce l’episodio di lui che irrompe e tronca la conversazione con sua madre.
«Una volta, avrò avuto 17 anni, ebbi un bellissimo scambio con lui. In genere teneva un tono sempre oggettivo, una certa distanza dalle cose, quella volta fu finalmente personale, e io ero felice di potergli parlare un po’ di me. Poi d’un tratto lui guardò l’orologio, e disse: “Sono le 14, devo tornare a scrivere”. Lo pregai di rinunciarvi, almeno per una volta. “Non posso”, ribatté. E si rinchiuse nello studio. Per farmi notare, prendevo i piatti della cucina e li scaraventavo sul pavimento».
Suo fratello Peter nel film racconta che quando scriveva, voi figli dovevate rimanere nel silenzio più assoluto.
«E non capivamo perché, eravamo solo dei ragazzini! A scuola, quando facevo un bel tema, i compagni mi dicevano: “Eh, certo, glielo ha scritto il padre”».
Era autoritario?
«Sì, certo. Ma soprattutto era un affabulatore. Quando era rilassato, dopo cena mi portava con sé nel bosco, a spasso con il cane. E allora iniziava a raccontare storie di fantasmi. Era divino. Alcuni editori gli diedero spontaneamente degli anticipi solo dopo avere sentito i suoi racconti; naturalmente lui non scrisse una riga».
Che tipo era sua madre?
«Da giovane era stata attrice, una donna bellissima. All’inizio non avevano un soldo. Mio padre scrisse i romanzi polizieschi per denaro. Lui le chiese di rinunciare alla carriera, e da allora tutta la vita di mia madre girò attorno a lui. Al primo posto c’era Friedrich, e poi venivamo noi figli. Lei lo seguiva alle prove nei teatri, alle conferenze in giro nel mondo, correggeva i suoi testi, a volte criticava dei passaggi nei suoi manoscritti. “Non funziona!” gli diceva. Allora lui si inalberava, se ne andava furioso, e dopo un po’ ricompariva e seguiva il suo consiglio. La mamma era totalmente assorbita da lui».
E poi all’improvviso, nel 1983, Lotti muore.
«Fu una tragedia enorme. Consideri che mio padre era convinto di morire giovane. E con qualche ragione, dacché dall’età di 26 anni era gravemente malato di diabete. Intorno ai 50 anni aveva subito già due infarti. Diceva: “Voglio essere seppellito dentro una tomba piena di salsicce e spaghetti e tante tante patate!”. Aveva aperto un contocorrente alla moglie: era angosciato dal fatto che la famiglia rimanesse senza reddito. E poi lei si spense, e lui ereditò quello che le aveva versato in tutti quegli anni».
Eppure, un anno dopo, si risposò con un’altra attrice, Charlotte Kerr. Come andò?
«Mio padre aveva 62 anni. Non riusciva più a scrivere. Commise delle stupidaggini. Non era più lui. Poi un giorno arrivò la Kerr, e disse che voleva fare un film su di lui. Papà si innamorò: “È come la Lotti”, diceva. Ma non era vero. Come la mamma anche la Kerr era stata molto bella, ma era un’attrice capace di recitare un solo ruolo, ed era davvero troppo concentrata su stessa ».
Sua zia Verena sostiene che Dürrenmatt grazie a questo amore rifiorì. È così?
«Charlotte era gelosa di Lotti. Capiva che il rapporto con mio padre non avrebbe mai potuto raggiungere la stessa simbiosi che c’era con lei. Non volle avere rapporti con noi figli. Lui le tacque dove aveva conservato le ceneri di mamma».
In che senso?
«Non le disse mai che aveva tumulato le ceneri della prima moglie sotto l’albero in giardino. Mio padre non era tipo da funerali, non amava la Chiesa. Prima di morire diede disposizione di seppellire le proprie ceneri sotto lo stesso albero. E Charlotte eseguì. Quando lei morì, nel 2011, ordinò di poter essere seppellita nello stesso posto, insieme a Friedrich, mai immaginando che là già riposava Lotti».
Quindi ora riposano tutti e tre sotto lo stesso albero?
«Sì, non è un tipico finale da Dürrenmatt?» (Ruth scoppia a ridere fragorosamente).
Perché ha taciuto finora?
«Tutti mi chiedevano di mio padre. Ma io ero Ruth, e avevo la mia di vita. Ora posso fare i conti con me stessa e la mia famiglia. Domani, a Neuchatel, suonerò per papà in occasione delle celebrazioni del venticinquesimo».


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Chicago


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Detroit, la città di Rosa Parks

 

 
Fondata nel 1701 da cacciatori di pellicce francesi, è oggi più nota come capitale dell’industria automobilistica statunitense. Nella bandiera di Detroit compaiono i gigli di Francia e i leoni d’Inghilterra, a simboleggiare il ruolo svolto dalle due potenze nella storia della città situata al confine fra il Canada francese e i territori colonizzati dai britannici.
Detroit è la diciottesima città degli Stati Uniti con una popolazione di 701.475 abitanti (4,3 milioni nell’area metropolitana) secondo i dati del U.S. Census Bureau del 2012: si tratta di meno della metà della popolazione che la città aveva al suo apice negli anni cinquanta. L’amministrazione cittadina ha subito, nel 2013, una bancarotta, la più grande nella storia delle città statunitensi, ma a dicembre 2014 è uscita dall’amministrazione controllata.
Città a vario titolo di Rosa Parks, Henry Ford, Mis van der Rohe, di Madonna e della Motown. “E’ una città piena di storia, la nostra”.
Enjoy


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Sognando California (e dintorni)













Ph. Stephen Shore


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«Le droit contre la morale ou qui décide sur mon corps, sur ma vie et sur ma mort?»

Le 3 novembre dernier, le Sénat accueillait un colloque organisé par le Syndicat de la magistrature intitulé «Le corps du délit ou la libre disposition de soi». Nous publions ici le propos introductif du juriste Daniel Borrillo.

À qui appartient mon corps? Suis-je maître de ma vie et de ma destinée? Ces questions traversent l’histoire de la philosophie politique et morale et leur réponse juridique conditionne – et parfois détermine – la relation de l’individu à lui-même et à son intimité.
Le mouvement féministe, porté par les avancées techniques en matière de contraception, a permis de poser sur la scène publique, de manière renouvelée, la question de la disponibilité de soi, de son corps et in fine de sa vie. Cette problématique n’est pourtant pas nouvelle, elle constitue l’un des fondements du rapport au pouvoir, entendu comme contrainte de vie et de mort (dans l’Ancien Régime) ou comme discipline permanente sur le vivant, depuis l’ère moderne, comme l’a mis en lumière Foucault.
Si les avancées technologiques permettant d’objectiver le corps ont certes renouvelé le débat bioéthique, son ancrage demeure toutefois bien plus ancien. Les Romains organisaient la vie politique à partir de la summa divisio: alieni iuiris et sui iuris ce qui déterminait la communauté d’hommes libres, maîtres d’eux-mêmes et les autres (femmes, étrangers, enfants, esclaves…) se trouvaient nécessairement sous tutelle.
La tradition chrétienne généralise le dispositif tutélaire, désormais le corps n’appartient plus au chrétien. Il est le temple de Dieu, comme le souligne Saint Paul: «Le corps n’est pas pour l’inconduite, il est pour le Seigneur et le Seigneur pour le corps» (I, Cor.6.13.), «celui qui se livre à l’inconduite pèche contre son propre corps» (ibid., 6, 18). Le corps, porteur provisoire de l’âme, est sacré et doit être respecté par les autres comme par celui qui l’habite.
L’Église n’hésite pas à utiliser la figure de l’usufruit pour caractériser le rapport de l’individu à son corps. Reprenant la tradition, Pie XII, dans son Allocution aux participants du VIIIe congrès international des médecins à Rome, le 30 septembre 1954, proclamait: «L’homme n’est que l’usufruitier, non le possesseur indépendant et le propriétaire de son corps et de tout ce que le créateur lui a donné pour qu’il en use et cela conformément à la nature».
En effet, la technique de la propriété ne semble pas la plus adéquate pour caractériser le rapport de l’individu à son corps et à sa vie. Les publicistes parleront plutôt d’une liberté que d’un droit subjectif et les privatistes oscilleront entre la notion de contrat (lorsqu’il s’agit de déterminer la responsabilité civile) ou de primauté de la personne humaine (lorsqu’il s’agit de justifier les limitations à la libre disposition de soi).
Sans rentrer dans le débat jus-philosophique relatif à la nature du droit qui relie la personne à son corps: droit subjectif ou naturel, liberté ou droit de la personnalité…, il semble important de souligner que l’utilisation que la jurisprudence fait de la notion de propriété sur son corps peut être particulièrement bénéfique pour l’individu. Souvenons-nous de la décision de la cour d’appel de Californie laquelle a considéré, dans l’affaire Moore, que le malade avait un droit de propriété sur ses cellules qui ont servi de base à la création d’un médicament breveté par une multinationale pharmaceutique. Cette décision a permis à M. Moore d’obtenir un dédommagement millionnaire.
En France, sans aller jusqu’à invoquer le droit de propriété et dans une décision n’ayant pas la dimension économique de l’affaire californienne, la dissociation du sujet et de son corps est particulièrement bien illustrée par la jurisprudence Perruche où le requérant se plaint du préjudice consécutif à son handicap de naissance. Se plaindre de son corps implique nécessairement de se différencier de celui-ci, à témoigner de sa liberté vis-à-vis de celui-ci. Olivier Cayla a raison d’affirmer que «la liberté de l’individu se pense donc utilement comme une liberté à l’égard de sa propre nature. […] Cette modernité individualiste et artificialiste […] pense la personne comme étant le construit de la volonté et non pas le donné de la nature, ou, plus précisément, comme le produit de la technique juridique et non pas comme une qualité ontologique de l’être humain que le droit devrait se contenter de consacrer.»
Au nom de son autonomie, l’individu devient son propre créateur et acquiert la pleine maîtrise et disposition de son corps. 
L’idée même de modernité implique ce rapport d’appartenance à soi-même. C’est parce que l’on a pu s’arracher à la domination naturelle du monarque absolu que fut possible la délégation du pouvoir aux représentants du peuple. La question est éminemment politique: le lien qui me lie à mon corps et à ma vie apparait ainsi comme un lien civique et non pas comme un lien naturel comme le prétendait Savigny dans sa formule célèbre «Jus in se ipsum».
En ce sens, le slogan des féministes «Mon corps m’appartient» avait une portée émancipatrice: l’individu contre l’autorité, la femme contre l’État, il s’agit selon Gisèle Halimi, «d’un point de résistance infranchissable». C’est à partir de cette notion qu’il nous est permis de penser le rapport de l’individu à son corps, à sa vie et à sa reproduction.
Une démarche démocratique commence donc par penser le lien qui nous lie à nos vies, nos corps et notre descendance non pas à partir d’une idée naturelle ou sacralisée (nécessairement immuable et s’imposant à nous) mais en fonction d’une vision politique, c’est-à-dire soumise constamment à la délibération démocratique. Comme le note Tocqueville, «l’individu est le meilleur comme le seul juge de son intérêt particulier […], chacun est le meilleur juge de ce qui ne regarde que lui seul».
Mais cette vision de la liberté, propre au XIXe, fut nuancée par Foucault, qui met magistralement en lumière des nouvelles formes de domination sur la vie: le biopouvoir, défini par le philosophe comme «l’ensemble des mécanismes par lesquels ce qui, dans l’espèce humaine, constitue ses traits biologiques fondamentaux, va pouvoir entrer à l’intérieur d’une politique, d’une stratégie politique, d’une stratégie générale de pouvoir». Les limites à cette nouvelle forme d’assujettissement semblent acceptées par les sociétés démocratiques qui, conformément aux règles de bioéthique, ont permis de justifier certaines interventions de l’État (et de ses gardiens: hôpital, comité d’éthique, école…) sur les corps des individus. De même, les interventions permettant d’empêcher les abus et les déséquilibres financiers entre les parties semblent un impératif de l’État de droit. Toutefois, la critique du libéralisme et la mise en lumière du biopouvoir ne doivent pas éclipser les principes qui fondent les droits de l’Homme depuis la perspective de la pensée politique moderne, à savoir la liberté de l’individu dans la relation qu’il entretient avec lui-même.
Sur le fondement de l’ article 8 de la Convention, la Cour européenne des droits de l’Homme a reconnu le droit de tout individu à «l’autonomie personnelle». Est ainsi admise la «faculté pour chacun de mener sa vie comme il l’entend», ce qui «peut également inclure la possibilité de s’adonner à des activités perçues comme étant d’une nature physiquement ou moralement dommageable ou dangereuse pour sa personne». Cette précision des juges de Strasbourg me semble particulièrement éclairante: c’est aux individus de choisir leur conception de ce qui est convenable pour la réalisation de leurs intérêts. Et nous devons respecter ce choix même s’il nous semble choquant et contraire à la dignité humaine.
L’autonomie personnelle s’exprime particulièrement dans le droit de disposer librement de son corps. «Certaines personnes peuvent ressentir le besoin d’exprimer leur personnalité par la manière dont elles décident de disposer de leur corps», note la Cour. Toutefois, l’absence de consensus et la marge d’appréciation des États limitent considérablement l’autonomie individuelle en tant que droit subjectif. De surcroît, au niveau national, des principes tels que la dignité humaine, l’indisponibilité du corps humain et de l’état des personnes, ou encore le corps hors commerce, additionnés à une supposée «fonction symbolique du droit» constituent un nouvel ordre impératif et transcendant susceptible d’anéantir toute prétention subjective de l’individu à son corps, à sa vie et à sa destinée.
Tout au long de cette journée, le Syndicat de la magistrature nous invite à interroger les arguments déployés en faveur de l’auto-détermination personnelle ou contre elle, lorsqu’il s’agit de protéger l’individu y compris contre lui-même.
Nous pouvons les présenter synthétiquement en deux groupes. D’un côté, les arguments qui mettent en avant l’autonomie morale et la liberté individuelle sous la forme de la prééminence de la privacy et de l’autre côté, les arguments selon lesquels les droits de l’individu peuvent être sacrifiés au nom d’une priorité normative sur l’affirmation égoïste des droits individuels et se traduire dans des dispositions juridiques contraignantes: ordre public, identité narrative, communauté de sens, dignité humaine, Humanité…
Ainsi, on trouverait les droits de la personnalité d’un côté et les droits de l’Humanité portés par tout un chacun de l’autre. La protection de l’Humanité est ce qui nous permet l’intervention de l’État contre notre volonté, si nécessaire, car Il semble connaître mieux que nous ce qui est digne ou indigne pour nous.
De même, les notions d’indisponibilité de l’état des personnes et de corps hors commerce permettent de justifier les limites à la liberté de l’individu vis-à-vis de lui-même, de sa procréation, de son genre et de sa mort. Ces limites peuvent effectivement être nécessaires et justifiées lorsqu’il s’agit des atteintes des tiers mais lorsqu’il s’agit d’un choix de l’individu concernant sa propre personne, l’imposition de telles limites devient problématique. De surcroît, lorsque celles-ci se présentent comme de nature universelle, abstraite et anhistorique, elles peuvent être particulièrement dangereuses pour les libertés individuelles.
D’autant plus que la question ne concerne pas uniquement la sphère intime des individus, elle touche aussi le politique.
Ainsi, les analyses d’Éric Fassin ont démontré comment la sacralisation de la filiation mène à la naturalisation de la nation par un mécanisme de «soustraction à la délibération politique, pour en faire une vérité absolue transcendant l’histoire». D’autres courants se sont opposés à la libre disposition de soi, comme le montre Bertrand Guillarme, non pas à partir d’une conception sacralisée mais sur la base d’une critique du consentement contractuel, source d’aliénation, puisqu’il installerait un rapport distancié de l’individu à son corps (Carole Pateman).
Le féminisme matérialiste, inspiré de la pensée marxiste, considère que pour les femmes le consentement est nécessairement vicié à cause de la domination masculine, ainsi l’expérience subjective des femmes n’aurait pas d’importance, sur le plan structurel, elles sont des victimes. À partir d’une théorie radicale de la domination masculine, peut-on considérer qu’aucune femme dans aucune circonstance ne peut consentir à se prostituer ou à faire une GPA?
En tout état de cause, ces critiques ont permis une interrogation juridique pertinente: comment le droit saisit-il le consentement des parties à l’acte? Quelle analyse fait-il de leurs conditions particulières? Et surtout, ces critiques ont posé la question de savoir si l’on peut continuer à maintenir les frontières entre sphères privée et publique dès lors qu’on touche à une problématique si fondamentale comme la disposition de soi.
L’analyse approfondie du consentement me semble plus que nécessaire dans un monde d’inégalités économiques et sociales mais une fois qu’il a passé l’examen et qu’il n’y a ni dol, ni contrainte, ni déséquilibre financière dans les prestations, au nom de quoi est-il permis d’interdire cette libre disposition?
Comment donc trouver l’équilibre entre une protection nécessaire dans un monde où le marché placerait uniquement une minorité comme détentrice de tous les droits y compris ceux de disposer du corps d’autrui et la sauvegarde de ce qui fonde notre système démocratique: le droit à l’intimité et respect de la vie privée comme ultima ratio dans le rapport à soi.
À vouloir protéger l’individu contre lui-même, ne sommes-nous en train de créer une société des victimes au lieu d’encourager l’autonomisation, l’émancipation, le pouvoir d’agir des individus?
La prise en compte de rapports de domination ne doit pas installer les individus dans le statut de victimes mais au contraire leur permettre d’en sortir. En effet, la question centrale qu’il faut se poser est la suivante: qui décide à la fin?
Ce qui me semble problématique ce n’est pas la mise en place de ce que Stéphanie Hennette-Vauchez a appelé l’ordre public corporel en tant que limite aux interventions extérieures (noli me tangere) mais l’application de cet ordre public contre la volonté de l’individu dans ce qu’il a de plus intime, à savoir le rapport à soi-même. Traditionnellement, cette emprise sur la vie peut s’expliquer par la volonté de l’État de maîtriser ses sujets de droit: «Comme la personnalité est un don du groupe qui confère une dignité, la faire disparaître par le suicide revient à nier le collectif qui a créé la personne en la conférant», soulignait Xavier Bioy. Cette idée est ancienne puisqu’au XVIe siècle «le suicidé commettait un acte de félonie, non seulement parce qu’il agissait contre la nature et contre Dieu, mais aussi contre le roi, “en ce que, par cet acte, le roi a perdu un sujet; et étant la tête, il a perdu l’un de ses membres mystiques”».
Le rapport à soi, à son corps, à sa vie et à sa destinée me semble si intime, si subjectif que l’intervention de l’État n’est envisageable que d’une manière exceptionnelle et comme ultima ratio. Or, dans l’état actuel du droit positif force est de constater que plusieurs pratiques volontaires qui ne nuisent pas à autrui demeurent sévèrement punies comme l’assistance médicale à la procréation pour les couples de femmes (2 ans d’emprisonnement et 30000 euros d’amende), la gestation pour autrui (3 ans de prison et 45000 euros d’amende), l’insémination post-mortem (2 ans d’emprisonnement et 30000 euros d’amende), l’euthanasie (3 ans d’emprisonnement et 45000 euros d’amende), le suicide assisté (3 ans d’emprisonnement et 45000 euros d’amende: art. 223-13 code pénal). De même, ce n’est pas l’individu qui est maître de la destinée de sa dépouille mais l’Administration: seules l’inhumation ou la crémation sont possibles, tout autre choix est exclu, tels la cryogénisation, l’immersion en mer ou l’embaumement même si ces pratiques n’encourent aucun risque pour la salubrité ou la santé publique.
C’est, en effet, à partir d’une justification clinique que l’individu est autorisé à agir et non pas comme créancier des droits subjectifs sur sa propre personne. Ainsi, le changement de sexe ou l’AMP par les couples hétérosexuels ne relèvent pas du droit à l’identité de genre ou de la liberté procréatrice mais bien d’un acte médical venant pallier un supposé trouble ou une supposée stérilité…
Ce n’est pas le respect de la «vie privée» et du «consentement libre» qui régit le rapport de l’individu à lui-même, ces notions sont considérées souvent comme trop subjectives, trop susceptibles de mener vers l’aliénation et la réification de soi. À leur place, l’État par le biais du droit nous propose le respect de la «dignité humaine», entendu non pas comme un bien individuel mais comme un bien commun: l’humanité qui nous habite. Cette idée n’est pas nouvelle, comme j’ai pu le souligner précédemment, elle renvoie aux thèses théologiques relatives à la sacralité du corps comme tabernacle de l’âme et plus récemment à la philosophie kantienne et néo-kantienne exprimée dans les critiques au consentement entre autres par Carole Pateman ou Harry Frankfurt qui proposent de requalifier le rapport à soi non pas à partir de la disposition mais à partir de l’identification et l’amour entendu comme bien-être fondamental duquel les personnes ne sauraient se détacher qu’au risque de s’aliéner… (Sur cette question, je vous renvoie à l’excellent essai de Ruwen Ogien, Philosopher ou faire l’amour (Grasset 2014) qui démontre comment l’éloge de l’amour est devenu un genre qui exprime la pensée conservatrice qui sévit désormais à droite comme à gauche.)
C’est ainsi au nom de l’amour et du bien-être (traduit en droit par respect de la dignité humaine) que l’on interdirait à une personne de solliciter une aide au suicide, d’assister sexuellement une personne handicapée, de se prostituer, de porter un enfant pour autrui, de participer à un spectacle de cirque (lancer des nains), de changer de sexe sans la permission des médecins, de se faire inséminer avec le sperme de son compagnon décédé, de s’adonner à des pratiques sexuelles extrêmes ou de porter la burqa.
À la libre disposition de soi (et de toutes les libertés qui en découlent: liberté procréative, liberté sexuelle, liberté religieuse, liberté d’expression, liberté vestimentaire…), une nouvelle forme de conservatisme anti-libéral de droite comme de gauche propose (et parfois impose) l’amour de l’humanité qui est en nous. Au nom de notre propre bien-être et, si nécessaire contre notre propre volonté «aliénée» cette nouvelle et puissante forme de paternalisme considère que d’une manière générale et in abstracto certains choix sont «essentiellement» mauvais puisque contraires à l’amour de soi ou à la dignité humaine. Ainsi, il ne s’agit plus de promouvoir les droits de l’Homme mais les droits de l’Humanité, il ne s’agit plus de droits subjectifs de l’individu mais de l’ordre public de la dignité humaine. Celle-ci, souligne O. Cayla, «en pleine inflation fétichiste dans le vocabulaire juridique contemporain, offre aux adversaires résolus du subjectivisme moderne le moyen de combattre aussi bien en théorie qu’en pratique toute idée de souveraineté individuelle, y compris dans le cadre intime de la seule disposition de soi, en prétendant médiatiser et donc surveiller et contrôler, sans nullement y avoir été autorisés par l’intéressé de quelque manière que ce soit, le rapport que le sujet entretien avec lui-même, en lui faisant valoir que, même dans le contexte apparent de la plus pure privacy, la présence permanente de l’humanité qui l’habite lui interdit pourtant toute solitude et toute possibilité d’échapper à la transcendance des réquisitions d’un ordre public ou symbolique naturel».
Assigner les individus à cet ordre implique dans le même temps d’investir l’État d’une mission, celle de rendre les citoyens vertueux. Les récentes croisades morales contre les clients des prostituées et les personnes ayant recours à une mère porteuse ne constituent que les manifestations politiques de cette conception substantielle et objective de la dignité humaine – l’État et ses experts en Humanité savent mieux que nous-mêmes ce qui est bien ou pas bien pour nous.
Face cette conception «républicaine» de la dignité humaine, je propose une conception démocratique: la dignité ne recouvre que le droit de chacun de faire ce qu’il estime conforme à ses croyances, à ses valeurs ou à ses intérêts. Le rôle du droit est de protéger cette liberté, en s’assurant que la personne n’est soumise à aucune contrainte extérieure. Dans ces conditions, il est interdit à l’État de porter le moindre jugement sur l’usage qui est fait de ses droits par l’individu lorsqu’il s’agit du rapport à lui-même et que son consentement n’est nullement vicié. La construction de l’État de droit le conduit à une parfaite neutralité, au regard tant des valeurs que des pratiques culturelles dominantes. Malheureusement, ce n’est pas la logique de l’État de droit qui semble prévaloir dans les rapports de l’individu à lui-même mais une autre logique de type paternaliste et compassionnel, imprégnée de connotation moralisatrices et antidémocratiques, fournissant le cadre et la matrice de ce qu’on pourrait désormais appeler l’État-moral.

Daniel Borrillo, maître de conférences en droit privé, chercheur au CREDOF


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