Forse era tutto più semplice: il mondo stava in una pagina, al massimo in due, prima e seconda parte. Le varici (quelle sì che richiedevano una doppia) s’affacciavano sullo chemisier – che adesso neanche sappiamo cos’è, figurarsi indossarlo. Gli utensili per la cucina dividevano il colpo d’occhio con la lavorazione dei tessuti. Le professioni accessibili erano l’indossatrice, la domestica, la vetrinista. Non mancavano le ricette, le regole per l’educazione dei figli e quelle per la cura sanitaria di tutta la famiglia, il dritto&rovescio, nonché il galateo. Ma esilarante era la rubrica della psicologia: anche se non valeva mai più di mezza colonna, metteva nella stesso calderone la mitomane e la donna bellissima, l’emotività e la televisione (la televisione??).
Era il 1963 ed era l’Enciclopedia della donna. Penso si vendesse a fascicoli, poi si portava dal rilegatore. Quello di casa nostra era in una galleria nascosta di Porta San Felice.
Dopo un po’, tuttavia, anche la Marisa si deve essere stufata di quel pandemonio nozionistico che tagliava tutto con l’accetta. Nonostante, infatti, l’opera omnia fosse composta di diverse decine di volumi, in casa ne sono entrati solo sei o sette. Sarà per quello che che mi sento un po’ incompiuta, in continua contraddizione tra la scelta della carta da parati e “col dito, col dito….” etc. etc. Beh, diciamo che più che incompiuta, vivo le contraddizioni della mia generazione e del mio tempo – così la risolvo con una slogan.
Negli anni ’70 sopravviveva ancora tra le mensole della libreria svedese e io con quell’enciclopedia c’ho imparato a leggere e a lavorare a maglia. Quando avevo l’influenza, quando al pomeriggio la Marisa faceva il pisolino, quando fuori non si poteva andare perchè avevano ucciso lo studente Lorusso; e io a guardare giù dalla finestra di via Saffi, eppure tutto mi sembrava come sempre. Che casino! Come si fa a non essere cresciuti confusi?
Oggi quei volumi me li tengo cari. Per la grafica raffinata. E per il museo della mia vita.
Lo sfoglio.
Colonna sonora