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Rita, Bob e il femminismo 2.0



Sono un’ascoltatrice radiofonica distratta, ma costante. La radio mi fa compagnia, sebbene le parole mi entrino da un orecchio solo, a volte fermandosi, a volte no. Recentemente sono inciampata in un programma interessante di Radio Capital. Si chiama Rock in love, è tratto da un libro e racconta le grandi storie d’amore che stanno dietro (o davanti, se esibite) alle grandi stelle (maschi) del rock.
Nei mie ascolti distratti sono finita dentro la raccontatissima storia di Ike & Tina Turner (lei all’inizio costruì la carriera di lui, ma le prese anche di santa ragione – ormai la storia è nota) e oggi quella di Bob Marley e la moglie Rita.
Quando si sposarono, Rita aveva già un figlio, ma Bob la prese in moglie solo a condizione che il padre naturale del bambino non fosse mai più nominato. Marley, nella sua pur breve vita, ebbe 12 figli, non tutti con Rita. Lui viveva le sue molteplici relazioni alla luce del sole e per lui la ‘regola d’ingaggio’ imposta a Rita non era valida.
Rita pensava di avere una missione nella vita: sostenere Bob nel suo percorso di evangelizzazione del mondo. Quindi accettava tutte le condizioni imposte dall’unione con lui. Anche quella di restare nell’ombra. Per i fans di Marley, infatti, non doveva esistere nessuna moglie: quella di marito fedele era un’immagine che poco si addiceva a una rockstar. Tuttavia era lei a far marciare le cose, ad occuparsi delle incombenze pratiche in famiglia e nell’amministrazione della carriera del grande cantante e attivista giamaicano.
I giornali, invece, li leggo più attentamente e adoro le articolesse. Come questa intervista ad Attali. Il tema mi richiama alla mente un altro mio ‘cavallo di battaglia’: My Architect, storia privata di un uomo che ha fatto la storia dell’architettura, Louis Khan. “Mentre un figlio (illegittimo) cerca suo padre, tentando di comprendere le ragioni di un abbandono, noi spettatori scopriamo la vita e la potenza creatrice dell’architetto Louis Kahn, uno dei più grandi artisti del Ventesimo secolo”, recita così la copertina del documentario, nomination all’Oscar come miglior documentario nel 2004. Louis Khan aveva tre donne e due figli. “Era troppo impegnato col suo genio per occuparsi della sua vita privata”, dice più o meno una di loro nel film.
Torno ad Attali, di cui condivido idealmente (e anche un po’ praticamente) la visione. Tuttavia, non posso fare a meno di constatare che la strada per arrivare alla condizione ideale tracciata dall’intellettuale francese è ancora molto lunga: sono sempre e solo le donne, a cui per secoli è stata inculcata la cultura del sacrificio (“non lo fo per piacer mio, ma far piacere a Dio” oppure “partorirai con dolore”), a custodire matrimoni segreti, a costruire carriere e potenze altrui, tanto per riassumere il concetto velocemnte. Con qualche eccezione, grazie a dio: la Clinton sta per candidarsi, prima donna nella storia, alla presidenza degli Stati Uniti, Sinead O’Connor, la provocatoria cantante irlandese, è uscita con un nuovo disco, di nuova magra e di nuovo strafiga, in cui canta “I’m not bossy (autoritaria), I’m the boss”.
Chiudo il cerchio, o almeno ci provo, con un’ultima osservazione. Il mese scorso è uscita in rete l’ennesima campagna virale: ragazze americane che si facevano selfie con un cartello in cui rivendicavano con orgoglio il fatto di NON essere femministe. Un coro mondiale di donne più consapevoli è insorto contro tutte coloro che pensano che essere femministe vuol dire essere brutte, vestite male, con la ricrescita bianca nei capelli, i peli nelle gambe e soprattutto vuol dire odiare i maschi. Non è così.
Quel femminismo lì, quello che esibiva al collo la lametta, è tramontato e ormai insopportabile alle donne della mia generazione. Quel femminismo lì, però, ha lottato per battaglie fondamentali nel campo dei diritti civili: aborto e divorzio, tanto per citare quelli più alla portata di mano. In un certo senso è stato più facile: si lottava per chiedere cose concrete, una legge che ci permettesse di separarci da un marito che non volevamo più, di abbandonare una gravidanza non voluta, di abolire il delitto d’onore (un marito tradito era giustificato se uccideva la moglie che col tradimento aveva macchiato la sua virilità).
Oggi, essere femminista 2.0 (mettiamola così), significa fare una battaglia molto più difficile perché impalpabile in quanto è una battaglia culturale, che entra nel sentire dei singoli, nella pancia, nell’emotività, nella psicologia e nella sfera privata (“ma il personale è politico”, mi ha ricordato Nan Goldin, incontro tra i più felici dello scorso inverno).
La battaglia culturale significa estirpare dalle donne quel senso del sacrificio che non permette la parità, la libera scelta e quindi la realizzazione di quella condizione ideale, neutra espressa da Attali.
Io non demordo.

nella foto, Rita e Bob nel giorno del matrimonio, febbraio 1966

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