FINALMENTE in India lo stupro non è più un’onta e le vittime hanno smesso di sentirsi colpevoli. La spessa cappa di omertà attorno a quella che nel nostro Paese è un fenomeno dilagante, è stata spazzata via. La violenza subita da una sola ragazza, il 16 dicembre del 2012, ha avuto l’effetto mirabolante di risvegliare la coscienza di un Paese intero. Ha spinto un miliardo e duecento milioni di cittadini di una nazione zeppa di contraddizioni a guardarsi dentro come mai forse avevano fatto prima.
L’ondata di rabbia generata dallo stupro di gruppo New Delhi è stata benvenuta e catartica. Oggi nei salotti scintillanti della classe media urbana, così come nelle catapecchie di villaggi e baraccopoli, lo stupro ha smesso di essere tabù. Sedute attorno a un tavolo, intere famiglie hanno iniziato a discutere di quanto strisciante fosse la misoginia nel Paese, se le donne avessero paura di denunciare gli stupri che subivano perché non sarebbero state viste come vittime, ma come colpevoli. Fino a ieri questa concezione patriarcale così crudele permeava non solo la struttura familiare, ma anche le istituzioni statali. Tanto che persino le forze dell’ordine non si prendevano più di tanto il disturbo a indagare le denunce di stupro che ricevevano da chi aveva il coraggio di farsi guardare dagli agenti come una sgualdrina per quello che aveva subito.
Il processo di introspezione che è seguito alle imponenti proteste di piazza di dicembre e gennaio ha messo a nudo tutto questo. Lo stupro di una studentessa di ventitré anni ha mostrato all’India le sue debolezze, ma alla fine le ha infuso anche forza. Ha mostrato quanto lo stupro in India fosse giustificato culturalmente, quanto fosse usato come rozzo strumento di controllo sulle donne, esercitato anche dalle caste alte verso quelle più basse. Ma dopo quell’evento l’India ha iniziato a percorrere un processo difficile, ma essenziale, di coraggio e maturità. Ha iniziato a sanare quell’enorme contraddizione tra un Paese in preda a una spumeggiante emancipazione economica, ma ancora attraversato da una cultura profondamente tradizionalista, dove il rispetto dei costumi può diventare pretestuosamente l’àncora a cui aggrapparsi nella disorientante fase di globalizzazione.
Eppure questo processo di introspezione ha avuto anche effetti terrificanti. Sull’onda emotiva delle proteste lo Stato si è arrogato il diritto di togliere la vita a quattro uomini colpevoli di uno stupro. Può uno Stato che fregia di chiamarsi la più grande democrazia al mondo arrogarsi questo diritto? La pena di morte è una condanna estremamente sproporzionata anche di fronte al più orribile dei reati. Non c’è alcun dubbio che gli autori dello stupro dello scorso dicembre, che hanno martoriato il corpo di quella povera ragazza al punto da farla morire per le lesioni interne che le avevano provocato, andavano puniti con estrema durezza. Ma la sentenza emessa dal tribunale di Nuova Delhi non servirà da deterrente verso potenziali stupratori. Non aiuterà a salvare altre donne dall’infamia della violenza carnale. Al contrario, la legge che quest’anno, sull’onda emotiva dell’indignazione sollevata dallo stupro di Delhi, ha esteso la pena di morte anche ai colpevoli di violenze non farà che causare la morte di altre donne. Perché ora chi commetterà questo crimine preferirà uccidere la sua vittima per cancellare la prova vivente di quel gesto.
di SHOMA CHAUDHURY
da Repubblica, 14 settembre 2013