giornalismo

In piedi per Odette (il Pratello)


ANZLÀTT , Gisto e Duardèin. Poi Busiola, così avvezzo alle bugie, eil Professòur, che dava lezioni di ballo. Nessuno al Pratello portava mai il suo nome: i più erano tradotti in dialetto, i pochi vantavano un appellativo che subito li identificava. Del resto, «se sei nato qui hai rischiato di essere “diverso” e tu, crescendo, non hai potuto far finta di nulla». Lo raccontò Odette Righi, nel suo libro «Il Pratello», edito nel 1978, a cent’anni dalla registrazione, con delibera comunale, del nome di questa città nella città, strada di furfanti e donnacce, ma anche quartiere dove «è nata la ribellione, la coscienza proletaria, l’antifascismo,
la Resistenza».
Odette, scrittrice e pedagogista, è morta la notte del 15 maggio. Al Pratello, dove visse per 87 anni. Instancabile attivista politica, animatrice culturale, insegnante di scuola materna, è stata ricordata in consiglio comunale, ma lo sarà con più forza il 9 giugno, all’Archiginnasio, cuore nobile della città, dove sarà ricordata con tutti gli onori, lei cittadina del «borgo malfamato, striscia grigia coperta dall’ombra», cui tra i soldati e le prostitute si aggiunsero secoli fa, visti di malocchio, i liberati dalla schiavitù, grazie al Codice del Liber Paradisus del 1257.
L’iniziativa è della Pendragon, la casa editrice bolognese che due anni fa ripubblicò il libro e che qualche settimana prima della sua morte aveva consegnato a Odette le bozze per la riedizione delle sue favole «Il passato a testa in giù e altre storielle». L’edizione originale di «Il Pratello» sopravvive nelle cantine di qualche biblioteca. La riedizione è in prima fila nella vetrina di Lino, il giornalaio della strada, testimone di un’epoca di cui, nonostante le ordinanze, i comitati di cittadini e le regole del buon vicinato, non s’è perso lo spirito. Volavano i coltelli, al Pratello, ai primi del ‘900, a volte a pareggiare rivalità, altre a porre fine a un dispiacere. Come Bianchèinche si ammazzò per una “vi- cenda banale” — scrive Odette — . Aveva amato una donna maritata e da quell’amore segreto era nato un figlio che avrebbe portato il nome di un altro uomo». La storia si raccontava per strada, ai bambini, seduti su una sedia. O come Anzlàtt, il garibaldino, che perse le gambe pestando a piedi nudi la soda per far bianco il bucato alla lavanderia pubblica. I piedi andarono in cancrena e ci volle l’amputazione, ma l’eroe non volle l’anestesia. «Tajé pur da zdè. Se me a fagh un vérs, vol dir ch’an son mai stè vi con Garibèldi! » .
E poi riaffiorano le osterie, i cori dei nottambuli, le secchiate d’acqua dalle finestre sui fracassoni. E il Cristo nero, a metà della via, sulla destra, scendendo dal centro. E la guerra, i fascisti, le bombe, i rifugi negli scantinati, gli sfollati. «La via è tortuosa, il tempo lungo — sono le ultime righe del libro — . I padri del Pratello ci hanno indicato strade anche differenti, ma hanno lasciato un impegno che pesa sulle spalle di tutti, l’impegno di andare avanti». E l’epopea continua.
Da Repubblica – Bologna | 25 maggio 2014

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