scrittura

Prenez Soin De Vous



Nel frattempo ho traslocato e alla camera e cucina si sono aggiunti altri metri quadrati. Ce l’ho un po’ meno con lo scontro generazionale; sarà che sono sulla porta, lì lì per entrare nella stanza di quelli che prima guardavo di sbieco, sarà che mi par di avere trovato una mia strada. Vedo Bologna con occhi più indulgenti; in fondo non si sta poi male in una città ‘a portata di mano’. Basta, appunto, andare per la propria strada. Ciò nonostante, le intemperanze non finiscono qui.

“Sei troppo passivo”, rimprovera Lucy a Charlie Brown.
“Il tuo problema, Charlie Brown, è che non ti batti davvero con la vita…non la domini”.
“Devi prendere la vita per il collo e scuoterla! Devi tirarle calci nello stomaco! Devi darle pugni in faccia”, insiste l’Invasata al riparo dal suo botteghino di ‘Psychiatric help’ al costo di 5 cents.
“Non basta se la sgrido?”, ci prova il malcapitato per tagliar corto.

Adoro i Peanuts: sono la quintessenza della vita, più profondi di qualsiasi trattato di filosofia esistenziale.
Ecco, a volte vorrei che questo mi bastasse: un rimprovero, un rimbrotto, uno sbuffo, una sgridatina. Senza prendere sempre tutto di petto, nel male, ma anche nel bene. “Sei proprio un ariete – mi diceva uno a cui ho voluto molto bene –. Sempre con le corna in resta, con le narici fumanti. Che poi carichi per sfondare porte già aperte; te ne sei mai accorta?”.
Se nascessi di nuovo, farei l’urbanista – ho pensato tante volte. Nella prossima vita, farò la rockstar – ho fantasticato anche questo. Vorrei essere Sophie Calle – ho deciso, invece, coi lucciconi agli occhi all’uscita di una mostra al Louisiana di Copenaghen.
Ho inseguito per anni i suoi lavori, forse non così conosciuti in Italia, o almeno io in una sua mostra non mi ci sono mai imbattuta. Poi un giorno sono entrata stancamente in un museo di arte contemporanea ad Aarus, città anonima della Danimarca (paese un po’ anonimo in generale, mi è parso), e in una mostra collettiva ci ho trovato una sua opera. Al bookshop ho chiesto se per caso avevano qualche pubblicazione su di lei. Niente. Ma, mi rivela l’addetto, “a Copenaghen sarà ancora aperta per qualche settimana la sua mostra”. Da lì la vacanza non è stata più la stessa: unica missione, Sophie Calle. E quando, alla fine di un giro interminabile nella noiosa e uggiosa piana danese sono arrivata a Copenaghen, avrei voluto farmici chiudere dentro a quel museo stupendo che è il Louisiana.
“Prenditi cura di te”, le scrive un suo amante al termine di una lettera con cui chiude la sua relazione. Lui era un tipo un po’ così, moderno, diciamo, o libertino, che dir si voglia. A lei, però, promette che nel loro caso sarà diverso (già un filo di nausea…) che lei sarà la prediletta. Fino a che un giorno – le scrive lui, nella sua mail di dimissioni – si accorge che comincia a ributtare l’occhio sulle altre e che non potrà più essere fedele al suo patto. E’ meglio chiudere lì, le scrive con enfasi, perché lei non si merita tutto questo (altra nota di nausea…).
“Prenez Soin De Vous”, sono le testuali parole di chiusura, scritte in calce anche sulla locandina della mostra che da quel giorno danese fa bella mostra di sé nel salotto di casa mia.
Sophie non la manda giù granchè; mai bello essere piantate in asso. Ma la differenza sta nella reazione. Con quella lettera in mano lei chiede appuntamento, una dopo l’altra, a più di un centinaio di donne, le più svariate per età, estrazione sociale, cultura, nazionalità. C’è la ballerina indiana e Danielle Mitterand, la filosofa del linguaggio e la ragazzetta col cellulare, Luciana Littizzetto (unica italiana) e la presidente di non so quale tribunale francese. A tutte chiede di interpretare quelle righe, soprattutto quel “Prenditi cura di te”. Ed ognuna a suo modo lo fa, tra video, scritti e foto che restituiscono le chiose di ciascuna.

“I received an email telling me it was over.
I didn’t know how to respond.
It was almost as if it hadn’t been meant for me.
It ended with the words ‘take care of youself’.
And so I did.
I asked 107 women (including two made from wood and one with feathers), chosen for their profession or skills, to interpret this letter.
To analyze it, comment on it, dance it, sing it.
Dissect it. Exhaust it. Understand it for me.
Answer for me.
It was a way of taking the time to break up.
A way of taking care of myself”.
S.C.

Non sono mai stata femminista; ho sempre pensato che ciò che le donne della mia generazione hanno conosciuto del femminismo abbia impedito loro di esserlo. Forse è semplicemente la parola ‘femminista’ che non mi piace; suona un po’ come la storia della riserva del panda, da tutelare perché in via d’estinzione. Le donne non sono una specie in via d’estinzione, anche se ci sono paesi in cui si corre questo rischio e in cui l’ostetrica che annuncia ‘è una femmina’ suona come una condanna a morte per la neonata – cito a memoria un articolo letto sull’India a proposito di aborto selettivo e violenze varie.
Piuttosto che dirmi femminista, mi piace definirmi ‘libera’, ‘giusta’, dove per libertà s’intende la forza di scegliere la vita che si vuole e per giustizia quella di non pagare dazio perché sei nata sotto un fiocco dal colore sbagliato. “La libertà logora chi non ce l’ha”, m’è venuto da parafrasare qualche tempo fa. In ogni caso, anche questa ha un prezzo. Tra i tanti che mi è capitato di pagare ne cito solo uno irrisorio: un amico, tempo fa, mi chiese con pudore di soddisfare una sua curiosità, “ma tu sei lesbica?”, mi chiese. Ad indurlo in questo sospetto, tra gli altri, il fatto che il mio sito internet porta la citazione del fotografo Mario Dondero: “mi piacerebbe essere ricordato come uno che ha voluto bene agli uomini”. Neanche avessi detto alle donne….mah, la gente è strana. Poi dicono che quella strana sono io.
C’è da dire che questi ultimi mesi del 2012 sono stati particolarmente segnati dal tema delle donne: “Ferite a morte”, la spoon river del femminicidio scritta e diretta da Serena Dandini. “Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorte. Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorte”, ripete come un mantra la prima vittima che racconta la sua storia. Poi sono due ore di brividi giù per la schiena e risate che risultano subito amare. Perché non c’è donna che nella sua storia affettiva non abbia vissuto la sensazione di una sopraffazione, di una violenza sottile di quelle che s’infilano senza menar le mani. Forse, più in generale, è che lo stare dentro una coppia è spesso violento. Avete mai fatto caso alla ferocia con cui si parlano un uomo e una donna che stanno insieme da anni, che hanno quindi abbassato il livello della formalità (e spesso del rispetto dello spazio altrui), e che pur si amano?

“Io l’amore l’avevo in mente, ma ho conosciuto solo gente e posso solo andare avanti fintanto che qualcuno è come me” (Ivano Fossati).

Vado, c’è tanto da fare in questo mondo.
“Prenez Soin De Vous”.

p.s. Un giorno Sophie Calle ricevette una lettera da un vecchio amore dei suoi anni a San Francisco. “Sophie, io e la mia donna ci siamo appena lasciati, dopo tanti anni, e sto molto male. Penso che mi farebbe bene passare un po’ di tempo nel tuo letto”.
Sophie lo accontentò: impacchetto il letto della sua casa di Parigi e lo spedì all’amico-amante a San Francisco. L’uomo ci dormì per qualche tempo, poi lo rimpacchettò e lo rispedì alla sua proprietaria. E’ tutto documentato: lettere, trascrizioni di telefonate, foto delle varie fasi della spedizione, tutto. Una foto, un testo, non hanno senso artistico in sé. Insieme fanno una storia, un’opera d’arte. E il visitatore-voyer sfoglia e legge tutto, mettendo le mani (letteralmente) nella vita dell’artista-esibizionista. Che male c’è a fare della propria vita un’opera d’arte?

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