Le ragazze erano arrivate ad organizzare la festa dei loro quarant’anni senza capire come questo potesse essere accaduto. Quaranta più quaranta più quaranta uguale centoventi: così avevano scritto sull’invito mandato a tutti gli amici. E ci avevano scherzato su. Le torte, il vino, la musica, gli amici, i regali, le chiacchiere e i brindisi. Poi la festa era passata ed erano rimasti i quarant’anni.
Sulle prime non ci avevano fatto caso; sembrava non essere cambiato nulla. E infatti era così: era vero che quel compleanno non aveva cambiato nulla in sé. Erano stati gli anni precedenti ad erodere pian piano le certezze, i desideri, il senso di onnipotenza segnato ora da qualche ruga, fastidiosa ma non più di tanto.
L’inverno della festa era passato. Era venuta la primavera, poi l’estate e quindi era tornato l’inverno. Sarà stato che i mesi freddi di quell’anno si stavano rivelando particolarmente duri. Freddi e grigi. Sempre, senza tregua. Pioggia o neve, mai sole. Sembrava un tempo un po’ apocalittico. Oppure come la fine di un film, quando allo scorrere dei titoli di coda si allontana la scena fino a farsi piccola piccola, un panorama a volo d’uccello. Ma qui siamo già oltre la meteorologia, più nella psicologia.
Era stato allora che i quarant’anni avevano bussato alla porta. Coi figli nati, a volte contesi tra i genitori, oppure quelli non nati, perché non voluti, in alcuni casi rincorsi, tentati ma non riusciti. Con gli amori persi, abbandonati, dimenticati, ma mai completamente, rimpianti, odiati, ricordati con rancore, a volte però con malinconia. Con le fatiche di tenere insieme i pezzi della propria vita. Sempre più fragili, quei pezzi, più cagionevoli.
Le vedevo, le amiche, ed erano sempre più belle. Più compatte. Persino più luminose di quando di anni ne avevano venti di meno. Qualcuna era ingrassata qualche chilo di troppo, qualcuna restava magra con troppo zelo. Qualcuna non teneva dietro ai capelli grigi, qualcun altra aveva perso un po’ di quello splendore sul seno, sul sedere che aveva incantato tanti uomini. Ma erano belle lo stesso. Anzi, di più.
Cos’era allora che non andava? I loro uomini. Me ne ero resa conto una sera che, caso strano, c’erano tutti: loro, cioè le amiche, e i loro uomini che erano così distanti da quelli che avevano amato, per i quali avevano pianto o camminato a dieci centimetri da terra. Quegli uomini dei quali avevano con tanta dedizione parlato, che avevano immaginato, cercato, inseguito.
Dalla mia posizione di osservatore avevo guardato bene gli uomini che erano invece lì ora, in carne ed ossa. Avevo notato che le donne stavano al centro, attorno a un tavolo. Parlavano, ridevano, bevevano, scherzavano, si abbracciavano, alzavano la voce, mangiavano e ribevevano, tenevano le redini della serata. I loro uomini, invece, erano sparpagliati a contorno di quella corolla di femmine. Uno spalmato sul divano, che sentiva che gli stava venendo la febbre, sosteneva. Un altro, il padrone di casa, che andava avanti e indietro dalla cucina portando piatti sporchi e riportandone altri pieni di cibo appena sfornato. Uno non c’era, era lontano, perché lontano lavorava, ma continuava a mandare messaggi sul telefonino della sua donna. Un paio chiacchieravano tra loro, cercando ogni tanto di agganciarsi a una battuta delle ragazze (mia madre aveva continuato a chiamare ‘ragazze’ le amiche della canasta anche una volta arrivate ai settant’anni) per far sentire la sua voce, dare la propria versione dei fatti. Altri erano sparsi qua e là per la casa.
Anche loro, i maschi, erano begli uomini, non sia mai. Di tutte le età: qualcuno aveva varcato la barriera dei cinquanta, ma c’era anche chi aveva qualche anno di meno delle ragazze. Ce n’erano per tutti i gusti: alti e bassi, grassi e magri. Con le spalle larghe o il mento appuntito con la barbetta del contemplativo. Uno pelatino, un altro con dei ricci neri che non stavano mai da nessuna parte e un altro ancora che non si decideva a tagliare la coda di capelli ormai grigi. Ex del Movimento e chi con la politica non c’aveva mai avuto nulla a che spartire, di sinistra o qualunquisti, di destra no, quello mai. Un architetto e un cuoco, un agricoltore e teatrante.
A vederli separatamente, a incontrarli una sera in una cena da soli, senza compagne, non avrei rilevato in loro nulla che non andasse, nulla di vistosamente fastidioso. Era però per via del fatto che conoscevo le loro donne che sostenevo, e a ragion veduta, che non andavano. Non andavano per le ragazze, per quello che avevano a lungo sperato, immaginato del loro futuro. Non era questione di compromessi, né di aspettative ridimensionate. Erano riusciti a prenderle per sfinimento, lo sfinimento di vivere amori a perdifiato, assoluti, disperati nella gioia come nel dolore. Quegli uomini erano arrivati una volta che quelle donne si erano sedute su una panchina all’ombra, per riposare un poco, fare pausa, ricaricare le energie. Le avevano colte in un momento di debolezza. E loro, consapevoli, si erano fatte cogliere. Ecco che cosa erano i quarant’anni, quella erosione che centimetro dopo centimetro aveva scavato la roccia. Ma non era una resa, non era ripiego. Era consapevolezza.